21 Novembre 2025

Somalia: quando Washington crea i nemici da combattere

di Davide Malacaria
Somalia: quando Washington crea i nemici da combattere
Tempo di lettura: 4 minuti

Ieri gli Stati Uniti hanno lanciato una serie di attacchi sulla Somalia, che si sommano ai tanti precedenti (il 10 novembre Antiwar ne annoverava 90 solo dall’inizio dell’anno). Un orrore sottaciuto, che da oltre due decenni miete vittime inutilmente, ché proseguire questa campagna, come annota Joseph Solis-Mullen del Libertarian Institute, è trattato “quasi come un’inevitabilità burocratica: una politica in cerca di una giustificazione, difesa per abitudine piuttosto che per necessità. Perché non c’è nessuna ragione razionale per cui gli Stati Uniti debbano bombardare la Somalia”.

US Africa Command Launches a ‘Series’ of Airstrikes in Somalia’s Puntland RegionUS Africa Command Launches a ‘Series’ of Airstrikes in Somalia’s Puntland Region

“Tutta questa intrapresa rappresenta un esempio da manuale di come l’inerzia, l’interesse personale e delle istituzioni oltre agli incentivi perversi della burocrazia che alligna nella sicurezza nazionale si combinino per produrre politiche distruttive che non portano alcun beneficio al popolo americano” e soprattutto ai bombardati, si può aggiungere.

Ciò perché, anzitutto, “le origini dell’attuale conflitto non risiedono in antichi odi o in qualche inevitabile lotta di potere africana, ma nelle azioni stesse di Washington. Al-Shabaab, l’organizzazione che gli Stati Uniti dicono di combattere, è un prodotto diretto della politica statunitense”.

“All’inizio degli anni 2000, la Somalia godeva di una relativa stabilità grazie all’Unione delle Corti Islamiche (ICU), una coalizione di autorità locali che era riuscita a ridurre la violenza e a imporre un minimo di ordine in un Paese devastato da decenni di conflitti civili”.

“Dal momento che l’ICU comprendeva ovviamente elementi islamisti, Washington – reduce dalla sua visione manichea del mondo post-11 settembre – lo percepì come una minaccia. Così l’amministrazione di George W. Bush incoraggiò e sostenne l’invasione della Somalia da parte dell’Etiopia nel 2006 per rovesciare l’ICU”.

“Il risultato era prevedibile per chiunque abbia familiarità con le dinamiche di base delle insurrezioni: l’ICU, relativamente moderata, fu frantumata e gli elementi più estremisti si unirono in un nuovo gruppo militante più agguerrito: Al-Shabaab”.

“Ma non fu questa la fine della storia. Quando, negli anni successivi, gli Stati Uniti continuarono a intervenire – attraverso attacchi aerei, incursioni segrete e a supporto delle forze dell’Unione Africana – si ripeté lo stesso processo. Come accaduto in Iraq, Siria, Libia, Yemen e Afghanistan, l’intervento fratturò la società locale e scatenò gruppi separatisti ancora più violenti”.

“L’emergere dell’ISIS-Somalia non fu il prodotto di un antico settarismo o di qualche inspiegabile barbarie africana; fu il prevedibile risultato di un vuoto politico e di sicurezza ripetutamente alimentato dalle ingerenze esterne. Washington destabilizzò il Paese, sostenne governi corrotti e deboli e trasformò un problema di sicurezza locale in un problema regionale. Ma nulla di questo ciclo sembrò mai produrre una seria riflessione nei decisori politici statunitensi”.

“E così i bombardamenti continuano. Per oltre vent’anni, le amministrazioni di entrambi gli schieramenti politici hanno condotto attacchi aerei in Somalia contro obiettivi che non rappresentano una minaccia per gli americani, in un Paese che la maggior parte degli americani non riesce neanche a trovare sulla cartina geografica, contro gruppi che non esisterebbero se Washington ne fosse rimasta fuori fin dall’inizio. Nel frattempo, il Pentagono e la CIA descrivono tutto ciò come ‘antiterrorismo’, suggerendo una necessità che i fatti non supportano”.

“Per l’osservatore accademico distaccato è qualcosa di quasi surreale: le agenzie militari e di intelligence che hanno contribuito a creare il problema usano poi il problema da loro creato come giustificazione per continuare a finanziare, schierare e operare”.

“Si tratta, di fatto, di un programma di ripiego per un apparato di sicurezza nazionale tentacolare che cerca disperatamente di rimanere rilevante, di giustificare i propri bilanci e di mantenere l’illusione di un’onnipotenza globale. Per gli attori istituzionali coinvolti, gli incentivi sono tutti in una sola direzione: continuare a bombardare. Che questa politica ottenga o meno risultati utili è irrilevante”.

“Il risultato di tale politica è quello di uccidere civili, di infiammare le proteste locali e approfondire il sentimento antiamericano. Non si tratta di preoccupazioni astratte. L’attacco di un drone che uccide una famiglia o annienta i convenuti a una festa di matrimonio può avere ripercussioni su una comunità per anni. Produce reclute. Motiva la vendetta. Consolida la percezione – già diffusa – che gli Stati Uniti trattino le vite dei musulmani come sacrificabili e la sovranità africana come qualcosa da ignorare. Per un paese povero e fragile come la Somalia, il costo umano è enorme”.

Quindi, dopo aver dettagliato gli enormi costi della campagna, l’autore prosegue: “La Somalia non minaccia nessun interesse americano. Non rappresenta nessun rischio per la sicurezza degli Stati Uniti. I suoi conflitti interni, per quanto tragici, non richiedono l’intervento americano, anzi l’intervento americano li aggrava palesemente”.

“La conseguenza di due decenni di attacchi non è stata la sconfitta di al-Shabaab o la stabilizzazione dello Stato somalo. Al contrario, il gruppo rimane agguerrito, il governo è ancora fragile e il ciclo di violenza continua. Le azioni di Washington non hanno prodotto vittorie, solo stallo e sofferenza”.

“Eppure, anche questo minimizza l’assurdità della cosa. Nonostante tutta la retorica aulica sulla ‘lotta al terrorismo’, i veri motori di questa continua campagna di bombardamenti sono burocratici e politici. Porre fine agli attacchi richiederebbe di ammettere che la politica ha fallito, di mettere in discussione le prerogative istituzionali del Pentagono e dell’intelligence e di rivalutare la più ampia visione del mondo post-11 settembre, che presuppone che gli Stati Uniti abbiano sia il diritto che l’obbligo di sorvegliare il mondo. E così gli attacchi continuano, non perché ottengano qualcosa, ma perché nessuno al potere ha un incentivo a fermarli”.

” […] La Somalia illustra, in piccolo, la più ampia patologia della politica estera statunitense: interventi che creano le stesse minacce che pretendono di contrastare, costi sostenuti dai contribuenti senza alcun beneficio, violenza inflitta ai civili per obiettivi che rimangono indefiniti e una classe politica riluttante ad affrontare le conseguenze delle proprie decisioni”.

“Non c’è nessun motivo per cui gli Stati Uniti debbano bombardare la Somalia. Non c’è mai stato. E più a lungo continua questa inutile campagna, più diventa chiaro che il problema di Washington non è la mancanza di nemici, ma la sua incapacità di smettere di crearne”.