Spiragli per Gaza (e cenni di distensione globale)

Netanyahu ha comunicato alle famiglie degli ostaggi che ha accettato il cessate il fuoco proposto dall’inviato degli Stati Uniti Steve Witkoff. Il fatto di averlo comunicato alle famiglie segnala che stavolta è diverso da altre e tornare indietro gli sarà più difficile (anche se non impossibile).
La proposta prevederebbe una tregua di 60 giorni in cambio della liberazione di dieci ostaggi vivi e dei corpi di 18 ostaggi defunti, scambio che dovrebbe essere attuato in due fasi.
Non si tratta, quindi, di un cessate il fuoco permanente, come richiesto dall’inizio delle ostilità da Hamas, in cambio del quale si era detto disposto a liberare tutti gli ostaggi – proposta lasciata cadere dalle autorità israeliane – ma Stati Uniti e Israele reputano di poter convincere Hamas che in questi 60 giorni di tregua si possa convergere su un’intesa che preveda tale prospettiva a lungo termine. Hamas potrebbe rigettare perché l’opzione di riprendere la guerra resta sul tavolo, ma vediamo.
Da quanto è trapelato da fonti israeliane, Witkoff ha faticato a far accettare tale proposta a Israele, tanto che il suo incontro con Ron Dermer, il consigliere strategico di Netanyahu incaricato delle trattative con Hamas, è stato descritto come “difficile” (blando eufemismo per celare il burrascoso contrasto). Lo stesso Witkoff, dopo aver piegato le resistenze israeliane, ha accennato di avere un “buoni presentimenti” circa la finalizzazione dell’intesa.
Ma, nonostante nei giorni scorsi Hamas abbia insistito sulla sua apertura a una proposta di accordo elaborata da Witkoff, per ora non si hanno riscontri sulla nuova profferta israelo-americana, anche se taluni media riportano che i dirigenti della milizia sarebbero rimasti “delusi” (ma potrebbe essere una fake news fatta circolare ad arte da Tel Aviv per intorbidire le acque e far fallire tutto: purtroppo siamo abituati ai giochi di prestigio di Netanyahu, che finora è riuscito a sabotare tutti i tentativi di intesa).
Secondo al Manar, sito libanese vicino a Hezbollah, Hamas avrebbe “dichiarato di aver raggiunto un accordo quadro con l’inviato speciale del presidente degli Stati Uniti in Medio Oriente, Steve Witkoff, per quanto riguarda un cessate il fuoco permanente a Gaza” (dove quel permanente è altro da quanto riportato in precedenza).
In attesa che il quadro si faccia più chiaro, si segnala che il difficile dialogo tra Witkoff e Dermer è stato preceduto da una telefonata altrettanto difficile tra Trump e Netanyahu riguardo l’Iran (Timesofisrael nel titolo riferiva di un “forte disaccordo“).
A spiegare il motivo del contrasto lo stesso Trump, il quale ha detto di aver chiesto al premier israeliano di non attaccare Teheran – come da notizie allarmanti circolate con insistenza nei giorni precedenti – perché le trattative tra questi e gli Stati Uniti sul nucleare di Teheran stanno procedendo bene, anzi “ottimamente” come ha detto il presidente Usa, e quindi riteneva “inappropriato” che Tel Aviv agisse.
Se Trump riuscirà a fermare il genocidio di Gaza e a trovare un accordo con l’Iran farebbe un importante passo verso distensione globale, anche se resta ancora aperta la piaga ucraina mentre pochi fanno notare la reale quanto silenziosa de-escalation con la Cina.
Al solito, una foresta che cresce fa meno rumore di un albero che cade e nessuno – o forse pochi di cui non ho contezza – ha notato che da quando Trump è alla Casa Bianca non si sono registrate crisi particolarmente acute tra Cina e Taiwan, che hanno scandito e funestato la presidenza Biden (che ha alimentato ad arte tale competizione inviando armi, navi, soldi a Taiwan ed esasperandone le spinte indipendentiste).
Al di là della competizione commerciale innescata da Trump e dalla propaganda anticinese ormai diventata cronica nell’ambito politico-mediato americano, non si è registrata nessuna crisi a rischio terza guerra mondiale (come ad esempio quella successiva all’improvvida visita dell’ex presidente della Camera Nancy Pelosi nell’isola contesa).
È anche per coprire tale mancanza di competizione muscolare a rischio bellico – prospettiva invece brandita in maniera più o meno feroce da diversi ambiti che l’hanno portato alla Casa Bianca – che Trump sproloquia con tonalità da bullo sull’acquisizione di Canada, Groenlandia e Canale di Panama.
Peraltro, a tali tuoni finora non è seguito nessun fulmine verso i Paesi degnati di cotanta attenzione imperiale, nonostante siano passati oltre cento giorni dall’inizio del suo mandato…
Ma il Medio oriente, al solito, può far saltare tutto il banco, dal momento che il genocidio palestinese sta sprofondando l’Occidente in precipizio morale dalle conseguenze catastrofiche e l’attacco all’Iran lo precipiterebbe in un tunnel dell’orrore ancora più terribile e a più ampio spettro (uno spettro globale).
Questa l’altra faccia, di vitale importanza, del lavorìo dell’amministrazione Trump per piegare il bellicoso premier israeliano a più miti consigli. Da notare che ieri, parlando alla Knesset, Netanyahu ha magnificato gli straordinari risultati del suo governo, che è riuscito a cambiare “il volto del Medio oriente“.
Non commentiamo le parole del genocida di Tel Aviv, ci limitiamo a registrare che tale enfatiche affermazioni, che sono seguite all’annuncio dell’assassinio del capo di Hamas Mohammed Sinwar, hanno tutto l’aspetto di una dichiarazione di vittoria. In genere, la vittoria viene proclamata a fine guerra. Lascia ben sperare (ma senza illudersi eccessivamente).