18 Novembre 2025

Venezuela: l'ultimo anello di una catena di guerre sanguinarie

di Claudia Carpinella - DM
Venezuela: l'ultimo anello di una catena di guerre sanguinarie
Tempo di lettura: 4 minuti

La tensione tra Stati Uniti e Venezuela resta altissima, anche se Trump domenica ha aperto uno spiraglio inatteso alla diplomazia affermando: “Potremmo dialogare con Nicolás Maduro”. Apertura arrivata mentre la portaerei nucleare USS Gerald R. Ford entrava nel Mar dei Caraibi per aumentare la pressione sul governo venezuelano.

Trump says he won’t rule out sending troops into Venezuela

A ciò si aggiunge la mossa di Marco Rubio: la designazione del cosiddetto “Cartel de los Soles” come “organizzazione terroristica straniera” , provvedimento che punta a colpire le finanze della cerchia di Maduro e ad alzare ulteriormente il livello dello scontro.

Così le parole di Trump non bastano a dissipare il timore che Washington stia riproponendo, punto per punto, il vecchio copione dei regime change.

Per decenni, gli Stati Uniti hanno propagandato al mondo un’idea tanto seducente quanto letale: che i regime change siano un’operazione militare soft foriera di libertà. Che bombardamenti, invasioni e sanzioni possano far germogliare democrazia e diritti. Ma chi ha vissuto quel processo sulla propria pelle conosce la realtà che sottende: morte, distruzione, destabilizzazione duratura.

E ora quel copione, logoro, ma mai archiviato, sembra tornare in scena in Venezuela, primo passo di un domino che mira a subordinare l’intero Sud America agli States, come spiega il senatore Rand Paul su Responsible Statecraft.

Arlington cemetery America First? For DC swamp, it's always 'War First'

A conferma del disastro incombente, un dettaglio segnalato dal Guardian: nel Mar dei Caraibi è stata inviata il 160° SOAR, un’unità di élite americana, la stessa che in Iraq operò insieme alla famigerata Wolf Brigade, una milizia irachena addestrata dagli USA che operava secondo il modello degli squadroni della morte delle dittature latinoamericane.

Antiwar ricorda quel che scrisse allora un ufficiale di questa unità d’élite dopo un rastrallamento congiunto con la Wolf Brigade: “Mentre superavamo un veicolo dopo l’altro carico di detenuti bendati, il mio viso si distese in un lungo sorriso da lupo”. Una scena tanto simile alle scene dei deportati da Gaza…

‘Regime Change’ in Venezuela Is a Euphemism for US-Inflicted Carnage and Chaos

I risultati, vent’anni dopo, parlano da soli. Un milione di morti, un Paese che non si è mai ripreso. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti non hanno ottenuto alcun dividendo politico o economico, mentre gli esuli iracheni che hanno messo a governare a Baghdad — più vicini a Washington che al proprio popolo — hanno sottratto almeno 150 miliardi di dollari dalle entrate petrolifere, ma, come annota Antiwar, “il parlamento iracheno ha respinto i tentativi, sostenuti dagli Stati Uniti, di concedere quote dell’industria petrolifera alle compagnie occidentali”.

Ma l’Iraq è solo una tappa in una lunga teoria di distruzione. Alla fine degli anni Novanta, la guerra della NATO separò il Kosovo dalla Serbia, con quest’ultima ridotta di quel che tempo era la Jugoslavia rimasta fragile, povera e ancora priva del riconoscimento globale promesso. In Afghanistan vent’anni di occupazione americana si sono conclusi con il ritorno al potere dei Talebani: gli stessi che l’intervento avrebbe dovuto sradicare.

Ad Haiti, nel 2004, l’interferenza americana pose fine alla presidenza di Aristide aprendo un ciclo interminabile di instabilità e violenza. In Somalia, il sostegno degli Stati Uniti all’invasione etiope del 2006 contribuì alla nascita di Al Shabaab, oggi ancora radicato e bersaglio di continui raid aerei Usa. In Honduras, il colpo di Stato contro Mel Zelaya — sostenuto da Washington — aprì la strada a un narco-governo durato anni.

In Libia, l’intervento del 2011, rovesciando Gheddafi, innescò un collasso totale: milizie, traffico di esseri umani, mercati di schiavi e un Paese ancora frammentato. In Siria, la guerra per procura contro Assad tramite le milizie islamiste alimentò l’ascesa dell’ISIS. In Ucraina, il colpo di stato del 2014 dilaniò il Paese, contribuì alla secessione di Crimea e Donbass e aprì la porta all’invasione russa del 2022. In Yemen, il sostegno americano alla guerra guidata dai sauditi ha prodotto una delle peggiori crisi umanitarie del secolo. Si potrebbe continuare…

È all’interno di questa lunga lista di precedenti che va compreso ciò che oggi incombe sul Venezuela. Né si tratta di un fulmine a ciel sereno: da quando Hugo Chávez vinse le elezioni nel 1998, Washington ha cercato in tutti i modi di rimuovere il governo venezuelano. Colpi di Stato falliti, sanzioni devastanti, il riconoscimento farsesco di Juan Guaidó come presidente, tentativi di incursioni da parte di mercenari: un catalogo già visto.

A questo però si aggiunge una novità: gli attacchi alle imbarcazioni civili nei Caraibi, condannati come illegali persino da senatori abitualmente favorevoli alle operazioni militari USA – che hanno causato almeno 80 morti.

E mentre Trump continua a riproporre la retorica secondo cui è il prescelto per “porre fine alle guerre infinite”, la realtà è, ça va sans dire, ben più complessa.

Parallelamente, l’ascesa di Marco Rubio ai vertici della politica estera sta irrigidendo ancor di più la posizione degli Stati Uniti verso America Latina. La sua ostilità verso Cuba e Venezuela è nota. E molti governi della regione lo considerano un freno a qualsiasi dialogo credibile con Washington, come ha detto senza giri di parole il presidente brasiliano Lula: con Rubio al tavolo “non è possibile nessun negoziato”.

“La crisi creata da Trump con il Venezuela – conclude Antiwar – mette a nudo le profonde contraddizioni della sua politica estera: la disastrosa scelta dei consiglieri; le sue ambizioni contrastanti di essere sia un leader di guerra che un pacificatore; la sua venerazione per l’esercito e la resa alla stessa macchina da guerra che intrappola ogni presidente americano”.

“Se c’è una lezione da trarre dalla lunga storia degli interventi statunitensi, è che il ‘cambio di regime’ non porta democrazia o stabilità. Mentre gli Stati Uniti minacciano il Venezuela con la stessa arroganza che ha distrutto tanti altri Paesi, è il momento di porre fine una volta per tutte a questo ciclo di violenza imperialista statunitense”.

Icastico il titolo dell’articolo citato: “Il ‘cambio di regime’ in Venezuela è un eufemismo per indicare la carneficina e il caos inflitti dagli Stati Uniti”.

 

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