20 Ottobre 2015

Wish you were here: il dramma del perdersi

di claudio perini
Wish you were here: il dramma del perdersi
Tempo di lettura: 2 minuti

Torniamo a parlare del tema della mancanza, già affrontato in compagnia di Franco Battiato, facendo un salto indietro di ben quarant’anni con la band inglese dei Pink Floyd, formazione che ha conosciuto un successo planetario nel bel mezzo degli anni ’70.

 

Quello suonato dai Floyd è un genere musicale strano: non è progressive perché non sono presenti particolari abilità tecniche (si pensi ad esempio ai virtuosismi di gruppi loro contemporanei come i Genesis o la nostrana PFM) né tantomeno richiami alla musica classica, pur ricalcandone le lunghe strutture; non è neanche rock, perché non c’è una matrice di ribellione generazionale (Rolling Stones, e ancor prima Elvis Presley) pur riprendendone a volte gli stilemi e le sonorità.

 

Si è tentato di inquadrare allora i Pink Floyd nella cosiddetta “musica d’arte” con una certa pretenziosità. Certo è che il quartetto inglese sfugge alle classificazioni, com’è proprio dei grandi.
Wish you were here è un disco del 1975, un concept album dedicato a Syd Barrett, ex membro e fondatore dei Floyd, allontanato definitivamente dalla band nel 1968 per l’insorgere inarrestabile di gravi problemi di ordine psichiatrico. Nascerà da quel momento un vero e proprio culto del personaggio Barrett da parte dei fans: come spesso accade, infatti, il pubblico tende a trasformare la pazzia (simulata o clinica) in romanticismo, con conseguenze deleterie per se stessi e il terminale di tale idolatria.

 

“Wish you were here” parla esattamente di questo meccanismo perverso, ovvero di come il successo (e principalmente le aspettative di milioni di persone riposte in un singolo uomo) porti all’esasperazione individui fragili e vulnerabili: fama e potere che si trasformano in soldi, in apparente onnipotenza, farebbero vacillare chiunque. Questo è ben illustrato nei due brani “welcome to the machine” (“benvenuto nel meccanismo”, appunto) e “have a cigar” (“prenditi un sigaro”, brano composto ironizzando sul manager discografico compiacente che ha sottomano un contratto vantaggioso per la band).

 

Il disco dunque viaggia su due binari distinti: uno è quello profondamente umano, dello sconforto per la perdita dell’amico (“wish you were here” – “vorrei che fossi qui”, e “shine on you crazy diamond” – “continua a splendere, pazzo diamante”) e che si dipana su atmosfere musicali intimiste e sognanti, e l’altro è il binario della denuncia verso lo show business, la macchina che produce soldi fagocitando umanità. Un sorta di diabolico meccanismo spersonalizzante che è la morte dell’anima.

 

Un’opera che fa riflettere ancora oggi, per la sua maestosità musicale – basti pensare alla celebre introduzione del disco – e per la complessità dei temi affrontati. Un’opera dunque che parla dell’anima, di come la si possa smarrire, vendere, barattare e non riavere indietro più. Che insegna come si possa tramutare in Musica l’orrore di perdere se stessi (una versione su youtube si può ascoltare cliccando  qui).

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