12 Gennaio 2018

L'inverno della primavera persiana

L'inverno della primavera persiana
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La primavera araba in salsa iraniana è finita prima ancora di cominciare. La sua debolezza era chiara fin dall’inizio. Ma quando venerdì scorso, giorno santo per l’islam, nessuno ha accolto l’invito a scendere in piazza, è stato palese che la parentesi poteva dirsi chiusa.

Sulle cause del fallimento di questa ondata di proteste, scoppiate improvvisamente agli inizi di gennaio, si è scritto tanto. Certo la macchina della repressione iraniana si è mossa e tanti sono gli arrestati con accuse di sedizione e violenze (forse tremila, forse più). E certo la chiusura dei social network ha ostacolato non poco l’organizzazione della rivolta.

Ma a chiudere questa incerta pagina dell’invernale primavera persiana è stato altro e ben più decisivo: l’arresto dell’ex presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, il motore della rivolta, come era apparso chiaro fin dall’inizio delle manifestazioni (vedi Piccolenote).

Scriviamo di arresto, ma non siamo certi che sia questa la sua sorte; magari è ristretto nel suo domicilio o altro (ma non è stato giustiziato, una notizia simile non potrebbe rimanere segreta).

Fatto sta che per alcuni giorni i principali giornali italiani si sono chiesti, con malcelata apprensione, che fine avesse fatto. Un’apprensione probabilmente provocata dalla consapevolezza che la sua eliminazione dal panorama politico iraniano avrebbe spento le fiamme della rivolta.

L’obiettivo di chi ha tentato di infiammare le piazze, va specificato, non era un regime-change come accaduto in Siria, Libia, Tunisia ed Egitto. Non c’era nessun presupposto per tale sviluppo.

Si mirava piuttosto a innescare una repressione violenta da parte delle autorità, che avrebbe posto fine alle istanze riformatrici di cui è portatore il presidente Hassan Rouhani, riportato l’Iran sotto la tutela della destra clerical-conservatrice e devastato l’immagine internazionale di Teheran.

Una catena di eventi che avrebbe avuto come conseguenza ultima l’imposizione di nuove sanzioni internazionali contro Teheran, svincolando così l’Iran dall’accordo sul nucleare contratto con gli Stati Uniti e altre potenze occidentali.

Caduto tale accordo, Teheran sarebbe stata additata nuovamente come una minaccia nucleare, con le conseguenze, anche tragiche, del caso (all’estremo, una guerra Stati Uniti-Iran).

Questi almeno i piani dei propulsori della protesta, la quale ha attecchito cavalcando il malcontento popolare contro la corruzione, la sperequazione economica, la concentrazione del potere in mano ai pochi, in particolare l’élite clericale sciita (istanze che, a parte l’ultima, mutatis mutandis, sono diffuse anche altrove; ad esempio in Italia).

Un piano vanificato perché probabilmente messo su in fretta e furia e perché basato su un equivoco di fondo.

Gli ambiti internazionali che l’hanno ideato immaginavano che l’ex presidente iraniano avesse una influenza ben maggiore nel suo Paese. Magari come tale l’aveva rivenduta lo stesso Ahmadinejad per convincere i suoi imprevisti alleati a puntare su di lui.

L’ex presidente iraniano da tempo scalpita per tornare al centro dell’agone, uscendo dalla periferia politica nella è stato relegato dall’ajatollah Khamenei, la guida spirituale del Paese (alle ultime elezioni ha addirittura rigettato la sua candidatura).

Ahmadinejad, dal canto suo, immaginava che i suoi interlocutori internazionali avessero in mano leve ben più consistenti di quelle effettivamente viste in azione in Iran.

In questo forse è stato ingannato dalle pregresse operazioni di regime-change attuate in Tunisia, Libia, Egitto e Siria, dove effettivamente tali ambiti erano stati capaci di usare leve impensabili ai governi di quei Paesi, riuscendo a realizzare mobilitazioni di massa ben più consistenti di quelle viste in Iran.

A mandare in fumo il tentativo iraniano ha contribuito non poco anche il mancato appoggio dei Guardiani della rivoluzione, forza d’élite e terminale ultimo dell’apparato militar-industriale iraniano.

La loro avversione al presidente Rouhani è notoria. Da qui la convinzione da parte degli ambiti che hanno pianificato la rivolta persiana di ricevere se non il loro sostegno almeno la loro neutralità.

Un altro abbaglio: tali ambiti non hanno tenuto conto che i Guardiani della rivoluzione sono i maggiori beneficiari dell’estensione dell’influenza iraniana in Medio oriente conseguente agli sviluppi della guerra siro-irachena.

L’Iraq e la Siria sono ormai legati a filo doppio con Teheran, il cui supporto è stato decisivo per sostenere, e provvisoriamente vincere, la battaglia contro i tagliagole jihadisti scatenati nei propri confini.

E i Guardiani della rivoluzione rappresentano la cinghia di trasmissione necessaria per conservare tale legame, che resta vitale per la loro sopravvivenza come Stati sovrani.

Tale situazione offre quindi ai Guardiani della rivoluzione una proiezione e un’importanza strategica mai conosciuta in precedenza. La rivolta persiana, ponendo criticità a Teheran, poneva criticità anche allo status quo di cui essi beneficiano. Da qui la loro ferma opposizione alle proteste.

Tanti dunque gli errori commessi da quanti hanno pianificato la stentata primavera persiana, progetto rivelatosi del tutto velleitario quanto improvvisato.

Esattamente quanto avvenuto per il progetto destabilizzante che ha visto protagonista il giovane principe ereditario saudita Mohamed bin Salman.

Sequestrando il primo ministro libanese Saad Hariri e costringendolo alle dimissioni, egli immaginava di poter facilmente destabilizzare il Libano (come notato con disapprovazione anche dal Dipartimento di Stato americano, vedi Piccolenote). Non è andata così.

Un’analogia non casuale quella tra quanto avvenuto a Ryad e i moti iraniani, dal momento che a tentare la destabilizzazione dei due Paesi sono stati gli stessi ambiti regionali e internazionali.

Detto questo, sconcerta non poco la delusione di tanti media e analisti occidentali per il fallimento della protesta persiana. Come anche la malcelata apprensione manifestata per la sorte del suo promotore interno.

Ahmadinejad è espressione delle forze più retrive della destra clericale di Teheran, ha più volte espresso il fermo proposito di incenerire Israele ed ha sostenuto con forza la corsa all’Atomica iraniana, mettendo l’Iran in urto con il mondo.

Non lo rimpiangeremo.

 

Ps. Oggi Bloomberg pubblica un’indiscrezione secondo la quale il presidente americano sarebbe intenzionato a inasprire le sanzioni contro Teheran. La Grande guerra mediorientale è ancora in divenire…

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