17 Maggio 2014

Impressioni da Rebibbia

Impressioni da Rebibbia
Tempo di lettura: 4 minuti



Rebibbia Orto della Casa
from Piccole Note on Vimeo (le foto del video sono di Massimo Quattrucci, la musica è stata composta da Stefano Messina – Prima della pubblicazione del video Piccolenote ha chiesto e ottenuto le liberatorie necessarie.)

 

 

In seguito ad un percorso di formazione all’interno della struttura penitenziaria, nel luglio del 2013 è nato l’Orto della Casa, gestito dalla cooperativa Men at Work e dall’Azienda Agricola La Sonnina. L’area coltivata si estende per un ettaro all’interno della Casa di Reclusione del Carcere di Rebibbia su un terreno riqualificato. Gli ortaggi sono coltivati nel rispetto dei cicli naturali e senza l’utilizzo di sostanze chimiche. Gli ortaggi “a chilometri zero” appena colti sono rivenduti presso i punti vendita interni agli Istituti penitenziari di Rebibbia o tramite gruppo d’acquisto. Attualmente vi lavorano quattro detenuti, assunti e retribuiti regolarmente, con la supervisione periodica di un agronomo. Il progetto dell’orto si sta proponendo come realtà formativa permanente per i detenuti della struttura penitenziaria: si tratta, come per altre analoghe iniziative, di dare un’opportunità ai detenuti, nella speranza di rendere realtà l’idea espressa nella Costituzione secondo la quale le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato».

 

Nell’occasione pubblichiamo alcuni stralci di un libro, a cura di Fabio Pierangeli, scritto da alcuni carcerati di Rebibbia. Il volume, Afferrare le redini di una vita nuova, viene presentato lunedì 18 maggio alle 18 presso la biblioteca Nelson Mandela (Roma, via La Spezia 21). Un’occasione, anche questa, per intravedere come dietro le sbarre può fiorire il tesoro della redenzione.

 

Ogni uomo è un punto interrogativo di fronte al fitto Mistero che nasconde in sé e che indaga dal momento in cui apre gli occhi sulla vastità della Vita.

Ogni giorno ci nutriamo di cibo, notizie, informazioni, dogmi e abitudini senza curarci della loro natura ed origine. Assimiliamo tutto incondizionatamente senza misurarne le conseguenze. Vendiamo la nostra anima per paura che il mondo non ci consideri e non ci apprezzi per quello che siamo o per quello che pensiamo. Ci conformiamo per pigrizia. Diamo in pasto la nostra libertà a un ritmo disumano, alla ricerca di contenuti che portano solo al sonno spirituale.

Abbiamo perso la nostra natura di ricercatori, di esploratori dell’ignoto, di creatori! Ci siamo dimenticati chi realmente siamo!

Non diamo più retta ai sogni, considerati e rilegati, ormai, dal pensiero comune, a mere, caotiche, “scorie” psichiche, ma che rappresentano, invece, l’unico residuo oggi rimastoci di quella natura perduta che porta al completo risveglio!

Siamo diventati abitudinari, assuefatti al conformismo, ma soprattutto abbiamo dimenticato la nostra natura divina, demandando ad altri il nostro rapporto con quello Spirito Creatore che vive in noi e alimenta la fiamma che ci mantiene in vita.

Chi di noi ha il coraggio di allargare quelle sbarre che fino ad oggi credevamo fossero lì per proteggerci dai pericoli esterni, mentre, invece, sono lì per proteggere il progetto di qualcun altro da noi stessi? “( A. B.)

 

Io, riesco a sentirmi particolarmente “attivo” in questa vita “non vita” soprattutto quando mi metto a studiare perché do un senso a questa attività che ho scelto da tempo.

Lo studio mi aiuta a migliorarmi e arricchirmi culturalmente e ciò mi permette di evadere da questi luoghi e di non oziare. (Anche se Pavese sosteneva che nell’ozio a volte possono nascere grandi pensieri, idee). Ma io, penso, che sia meglio essere attivi, magari questo mio pensiero può essere dettato dalla necessità del contesto in cui mi trovo e vivo.

Ma in me c’è comunque la motivazione e la speranza, che per me è la luce più luminosa che ci sia, e nonostante sia la più incerta, io questa luce non la spegnerò mai.

Perché è attraverso questa luce in cui credo, che mi sarà possibile riaccendere quelle luci che voi mi avete fatto spegnere come quella dell’amore, della fede e della gioia più grande che sarà quella di ri-vivere i miei giorni e la mia vita in tutta la loro pienezza e spensieratezza di quando ero ragazzo: animo puer. (Angelo M.)

 

In momenti come adesso io “evado” dal mio “sempre-uguale” presente scrivendo parole, nell’intento di riuscire ad esprimere quel poco che so e il quasi niente che ricordo di concetti complessi come la libertà, di concetti  inafferrabili come la vita.

Io non sono Darrel Standing (il protagonista del Vagabondo delle stelle di London, detenuto nelle carcere di San Quentin), ma conosco il significato insito nella sua storia, io so cosa significa essere materia rinchiusa nella materia, io non ho bisogno di immedesimarmi in lui per comprendere cosa sia l’assoluta mancanza di libertà, io, come lui, sono un detenuto.

Ho trascorso una buona parte della mia vita in carcere, perciò come tanti altri compagni di sventura, so bene cosa significa cercare  “un modo” per continuare a vivere nella totale assenza di libertà.

La vita intesa nel suo significato più convenzionale è tutt’altra cosa rispetto a quella che noi siamo costretti a inventarci ogni giorno.

Il carcere è luogo non luogo dove il tempo non è tempo, il carcere è forse l’ambiente più ostile che esista, il più innaturale per l’uomo. Se forme di vita meno complesse dell’uomo, animale razionale, a volte si lasciano morire piuttosto che rinunciare all’istinto di libertà, figuriamoci cosa significhi per un uomo essere costretto a vivere nella totale immobilità, nella condizione in cui ogni moto è solo origine di dolore.

In una simile situazione, l’uomo per sopravvivere o diventa insensibile, “materia pura” o per il contrario rinuncia alla propria “corporalità”, ormai, incapace di espletare le sue “funzioni primarie”.

“Vivere” chiusi in una cella di due metri per quattro per ventuno ore al giorno, poter abbracciare, baciare i propri amati durante solo quattro ore al mese, sapere che questo è il destino che ti aspetta per i prossimi venti, trenta anni,  e in alcuni casi estremi per sempre, questo sinteticamente è il carcere.

Non è mia intenzione in questa sede inoltrare un critica alla realtà penitenziaria del nostro Paese, mi limito a trasmettere qualche verità, sicuramente di parte, ma sorprendentemente simile a quelle che intende trasmetterci J.London attraverso la sua opera.

La verità di cui offro la mia insignificante ma sincera testimonianza è una della verità del libro, bisogna avere sempre fiducia nelle forze nascoste, a volte inimmaginabili, che l’uomo interiormente possiede, la vita può e deve essere un’avventura straordinaria anche se vissuta in una cella di due metri per quattro.

Darrell Standing trovò il modo per liberarsi dalla sua realtà imprigionante attraverso la “piccola morte”. Ogni uomo, costretto, giustamente o ingiustamente, a vivere una simile condizione, continua a cercare un modo per riuscire a vivere quella vita che materialmente non ha… Guai a non riuscire in questo, l’alternativa è…. o la pazzia o il rinunciare a vivere.

Il mio invito per tutti coloro che si sentono materia intrappolata nella materia “per il motivo che sia” è quello di riuscire a trasformare i propri pensieri in farfalle e di farle volare nella memoria e nella fantasia, nel tempo e nello spazio, fare in modo che superino i contingenti sistemi di sicurezza, mura e sbarre, in cui tutti siamo prigionieri, affinché viaggiando nell’immensità, al loro ritorno possano aiutarci a riscoprire le vere ragioni per cui si deve continuare a vivere. (J. B.).

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