26 Aprile 2014

Impressioni da Roma occupata

Impressioni da Roma occupata
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(foto Massimo Quattrucci, commento Fabio Pierangeli)

 

Date e coincidenze,  incrociano queste stupende visioni di Roma al momento drammatico di settantanni anni fa, durante l’occupazione tedesca.

Il racconto è del mio caro Maestro di letteratura Emerico Giachery, in Nostro Ungaretti  (Roma, Studium, 1988). Con commozione Emerico ricorda quei giorni drammatici, in cui si aspettavano le parole dei poeti, luce in quel buio.  In particolare quelle di Ungaretti che guardava a quella cupola, al teso Michelangelo (ricorrono i 450 anni dalla morte) “Alzavi le braccia come ali/E ridavi nascita al vento”:

“Soprattutto Ungaretti ci accompagnava con le dense pagine di Roma occupata, che ci restituivano, trasfigurato per tensione metafisica, il paesaggio di nostri indimenticabili giorni d’ansia: l’insensato vagare nell’intrico di una città impietrita dallo sgomento e divenuta incapace di offrirci gioia ‘e grazie piene di un tempo’…. Quasi emblema araldico del libro (Il Dolore di Ungaretti) e chiave della ragion poetica, si librava su quel paesaggio la “cupola febbrilmente superstite’, lievitato dal sogno eroico del ‘teso Michelangelo’ nello sconvolto secolo del sacco di Roma. A quella  cupola – di pietra o di cielo o di sogno che fosse – si affiancavano la Crocefissione massacesca o pseudomassacesca di San Clemente, l’immagine del pino nostrano… i pietrami memori del significato di una civiltà capace ancora di parlare umanamente all’uomo. Ed ecco monumenti e opere d’arte raggiungere un vertice di pregnanza spirituale”.

Ed ecco la poesia di Ungaretti:


da ROMA OCCUPATA (IL Dolore) 
1943/1944

 

Folli i miei passi

 

Le usate strade
– Folli i miei passi come d’un automa –
Che una volta d’incanto si muovevano
Con la mia corsa,
Ora più svolgersi non sanno in grazie
Piene di tempo
Svelando, a ogni mio umore rimutate,
I segni vani che le fanno vive
Se ci misurano.

 

E quando squillano al tramonto i vetri,
– Ma le case più non ne hanno allegria –
Per abitudine se alfine sosto
Disilluso cercando almeno quiete,
Nelle penombre caute
Delle stanze raccolte
Quantunque ne sia tenera la voce
Non uno dei presenti sparsi oggetti,
Invecchiato con me,
O a residui d’immagini legato
Di una qualche vicenda che mi occorse,
Può inatteso tornare a circondarmi
Sciogliendomi dal cuore le parole.

 

Appresero così le braccia offerte
I carnali occhi
Disfatti da dissimulate lacrime,
L’orecchio assurdo,
Quell’umile speranza
Che travolgeva il teso Michelangelo
A murare ogni spazio in un baleno
Non concedendo all’anima
Nemmeno la risorsa di spezzarsi.
Per desolato fremito aIe dava
A un’urbe come una semenza, arcana,
Perpetuava in sé il certo cielo, cupola
Febbrilmente superstite.

 

 

 

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