5 Dicembre 2018

Si può davvero sperare in Netanyahu?

Si può davvero sperare in Netanyahu?
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La sfida ai tunnel di Hezbollah lanciata da Netanyahu ha acceso controversie in Israele. Hamos Arel, su Haaretz, rivela alcuni retroscena.

Netanyahu e i retroscena di Gaza

Arel ricorda il contrasto col ministro della Difesa Avigdor Lieberman, il quale riteneva improcrastinabile una guerra a Gaza, mentre  il capo di Stato Maggiore dell’esercito Gabi Eisenkot e Netanyahu sostenevano fosse controproducente.

E che anzi fosse necessario stemperare le tensioni con Hamas, che la controlla, alleviando le condizioni della Striscia usando della disponibilità del Qatar, che si era offerto di inviare aiuti umanitari.

Sconfitto Lieberman, che si è dimesso, era però necessario creare un diversivo che allontanasse l’attenzione dal fronte Sud. Da qui l’idea di Netanyahu di smantellare i tunnel di Hezbollah sul fronte Nord.

Per Harel tale alternativa è “un’operazione relativamente sicura, ma meno essenziale”, che “distrae l’attenzione dell’opinione pubblica” dalle inchieste sul premier e “ancora una volta lo presenta come un super-statista, l’unico politico che può gestire le complesse e mutevoli sfide che presenta la regione”.

Dello stesso tenore una nota di Debka, che aggiunge che i tunnel erano noti da tempo e che quindi la necessità del loro smantellamento ha solo uno scopo politico (se minaccia vera, sarebbero stati eliminati da tempo).

I contorni dell’operazione, per Debka, inviano un “messaggio” chiaro: “Israele non sta andando in guerra”.

Tanto che ieri il portavoce dell’esercito israeliano “ha ribadito che l’operazione contro i tunnel è limitata al territorio israeliano, con l’implicito impegno di astenersi dal combattere fuori dal paese”.

Anche il giorno scelto per iniziare la demolizione sarebbe sospetto: una distrazione per coprire l’invio del secondo ausilio dal Qatar, giunto a Gaza proprio ieri.

Netanyahu sembrerebbe dunque accontentarsi di un’operazione di basso profilo ma di grande profitto. Vedremo gli sviluppi, ma ad oggi puntare sulla pace, paradossalmente, potrebbe voler dire “dar credito a Netanyahu” come ha scritto Gideon Levy su Haaretz il 15 novembre.

I rischi del mare in tempesta

Resta che non è detto che il premier, uso a cavalcar le onde, si fermi. Forte è la spinta per spuntare le unghie a Hezbollah, cioè eliminare la minaccia dei suoi missili, molto più preoccupante per Tel Aviv degli obsoleti tunnel.

Significativo in tal senso l’editoriale del Timesofisrael, che spiega come l’operazione sia il primo passo per giungere all’eliminazione di tale minaccia. Un obiettivo di vasta portata quanto difficile da raggiungere. Il movimento sciita non si farà disarmare facilmente.

Altro punto sottolineato da Arel: Tel Aviv “si sta abituando al cambiamento dettato dalla presenza della Russia nella regioneMosca ha in gran parte chiuso i cieli della Siria” all’aviazione israeliana, nonostante la prova di forza, forse più dimostrativa che altro, di alcuni giorni fa (raid contro Damasco). Da qui la virata strategica su Hezbollah.

Significativo il silenzio di Hezbollah, che evidentemente sta studiando le mosse oltreconfine. Come anche l’allerta inviato alle forze armate libanesi, a significare che queste non resteranno inerti nel caso di un nuovo attacco israeliano come invece avvenne durante l’ultimo conflitto tra Tel Aviv e il movimento sciita.

Situazione complessa. Il mare tempestoso per Netanyahu è situazione ottimale per navigare. Restando sul periglioso crinale che divide la pace dalla guerra.

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