Gaza: le tante criticità del piano di pace imposto ad Hamas

L’incontro tra Trump e Netanyahu ha avuto come esito, ad oggi l’unico, quello di rivelare il cosiddetto piano di pace stilato da Israele e formalmente proposto dagli Stati Uniti, ponendo fine a tante indiscrezioni pregresse che hanno posto ancora più criticità su una questione già fin troppo critica. In ballo c’è il destino oltre due milioni di palestinesi, sempre che i sopravvissuti al genocidio non siano di meno, e quello di una ventina di ostaggi israeliani (tanti dovrebbero essere i sopravvissuti).
Così si scopre che Tony Blair, segnalato in precedenza come il governatore de facto di Gaza, cosa inaccettabile per palestinesi e arabi, farà solo parte di un Board internazionale supervisionerà l’amministrazione di Gaza, affidata, quest’ultima, a un governo tecnocratico composto da palestinesi.
Inoltre, che la sicurezza della Striscia non sarà gestita da Israele, altra condizione inaccettabile, ma da una Forza di stabilizzazione internazionale composta da forze arabe e musulmane.
Fin qui le rassicurazioni, ma il testo non rassicura affatto sulle possibilità che Hamas lo accetti. Il punto nodale della questione resta il ritiro dell’IDf dalla Striscia, richiesta ovvia e sempre ribadita da Hamas in tutte le trattative pregresse.
Sul punto, il testo è stato cambiato all’ultimo minuto in un confronto riservato con Netanyahu e i suoi collaboratori. Lo scrive il Timesofisrael, che dettaglia: “Il punto 3 di quello che all’epoca era un piano di 21 punti, ottenuto dal Times of Israel, affermava che ‘le forze israeliane si ritireranno sulle linee di combattimento a partire dal momento in cui verrà presentata la proposta [dell’inviato speciale degli Stati Uniti Steve] Witkoff per preparare il rilascio degli ostaggi'”.
La versione aggiornata recita: “Le forze israeliane si ritireranno secondo la linea concordata”. Cenno aleatorio che secondo il Timesofisrael dovrebbe far riferimento “a una nuova mappa compresa nella versione aggiornata [del piano] che illustra le tre fasi del ritiro israeliano da Gaza”.
Questa “mappa mostra che le truppe israeliane potranno rimanere nella maggior parte della Striscia di Gaza anche dopo il primo ritiro delle truppe dell’IDF, in attesa del rilascio di tutti gli ostaggi”.
“Potranno quindi rimanere in quelle posizioni finché la Forza internazionale di stabilizzazione dei paesi arabi e musulmani non sarà pronta a schierarsi e a operare pienamente per disarmare Hamas, afferma il piano. Anche dopo la seconda fase del ritiro, le IDF rimarranno in oltre un terzo della Striscia, come indica la mappa”.
“Il terzo ritiro eliminerà le ultime truppe da Gaza, ma la mappa mostra che verrà istituita una zona cuscinetto di sicurezza lungo il perimetro dell’intera Striscia, un’altra richiesta israeliana”.
Inoltre, “il punto 16 del piano originale degli Stati Uniti affermava semplicemente che le IDF ‘consegneranno progressivamente il territorio di Gaza che attualmente occupano’ ed è stato cambiato così: le forze israeliane ‘si ritireranno in base a standard, obiettivi e tempi legati alla smilitarizzazione che saranno concordati tra le IDF, le ISF, i garanti e gli Stati Uniti'”.
Tali cambiamenti rallenteranno e limiteranno il ritiro israeliano, come titola il Timesofisrael, ma soprattutto inseriscono variabili soggette alla discrezionalità israeliana che non possono non allarmare Hamas. A conferma di tali perplessità, un video in ebraico in cui Netanyahu, a commento “dell’eccellente visita” negli Usa, spiega che l’IDF non si ritirerà da Gaza, aggiungendo che se Hamas rifiuta, Trump ha dato “pieno potere” a Tel Aviv per proseguire il massacro.
Peraltro, l’accenno più rivelatore sulle vere intenzioni di Netanyahu è arrivato durante la conferenza stampa congiunta con Trump: “Se Hamas respinge il suo piano, signor Presidente, o se lo accetta e poi fa praticamente di tutto per contrastarlo, allora Israele finirà il lavoro”.
Interpretare il pensiero del premier israeliano è esercizio semplice, dopo i tanti trascorsi: anche se Hamas accetta, Israele si riserva di riprendere il massacro se lo reputa necessario. Dopo quasi due anni nei quali Tel Aviv ha bombardato ospedali, scuole, panifici e tanto altro motivando tali azioni come necessarie a colpire i miliziani di Hamas, questa ulteriore discrezionalità aumenta le perplessità.
Ora la palla passa ad Hamas: se non accetta, tutto resta come adesso, solo che nessuno potrà più dire che è Netanyahu a non volere la pace. Se accetta e libera gli ostaggi, il destino dei palestinesi resta costretto in un tunnel oscuro del quale non si vede via di uscita, essendo il futuro di Gaza tracciato nel piano di pace alquanto nebuloso, anche se descritto in modalità fantasmagoriche.
Un piano tanto in linea con i desiderata israeliani che anche l’ultraortodosso Bezalel Smotrich, pur esprimendo dure critiche, per ora non ha dichiarato apertamente che vi si opporrà, com’è avvenuto invece in passato.
Netanyahu può tornare nel suo Paese soddisfatto. Se apparentemente Trump lo ha costretto ad accettare un cessate il fuoco, così le interpretazioni lineari dei media, in realtà è stato Trump a piegarsi per l’ennesima volta. Unica concessione del premier israeliano, le scuse al Qatar per l’attacco proditorio del 9 settembre, che peraltro non gli sono costate nulla e sono necessarie ai suoi piani.
Piani che ha delineato nella conferenza stampa congiunta con Trump. Riportiamo da Middle East Eye: nel suo discorso, Netanyahu ha “fatto un ulteriore passo – in netto contrasto con Trump – e ha dichiarato che lui e Trump stanno lavorando a una strategia a lungo termine per cambiare il volto del Medio Oriente, piuttosto che collaborare con i leader arabi e musulmani solo su Gaza”.
Trump aveva sperato di mettere nel sacco la vecchia volpe e nel sacco ci è finito ancora una volta lui. In attesa della risposta di Hamas, ma soprattutto di un miracolo, il genocidio continua.
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