26 Novembre 2021

L'attivismo Usa in Yemen, Etiopia e Isole Salomone

L'attivismo Usa in Yemen, Etiopia e Isole Salomone
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“Entro la fine dell’anno la conta dei morti causati dalla guerra in Yemen ammonterà a  377.000, dove il 40% di tali decessi sarebbe da attribuire direttamente al conflitto, mentre il restante sarebbe causato dalla drammatica situazione in cui versa il Paese a causa del conflitto stesso (malnutrizione, malattie etc). Il 70% delle vittime (circa 260mila) sono bambini al di sotto dei cinque anni…”

Così il nuovo rapporto delle Nazioni Unite. Tragico bollettino che, al solito, viene tacitato dai media, che invece hanno dato pagine e pagine alla crisi dei migranti al confine polacco-bielorusso, di certo molto meno drammatica, e ancor più pagine alla vicenda della tennista cinese sparita e riapparsa dopo aver denunciato molestie sessuali da parte di un dirigente del partito comunista.

Se citiamo quest’ultima nota di cronaca è perché la storia è stata usata per alimentare le pressioni sull’amministrazione Biden perché boicotti le Olimpiadi di Pechino prossime venture (peraltro, coincidenza, organizzate proprio dal dirigente accusato).

Oltre alla vicenda della tennista, ovviamente, tale campagna fa leva anche sui diritti umani che si dice siano negati agli uiguri dello Xinjiang. Se ne accenniamo in tale nota è perché il lodevole trasporto per i diritti umani a quanto pare non include quelli degli yemeniti, che evidentemente non sono considerati esseri umani.

Nessun analogo boicottaggio per l’Arabia Saudita che stanno conducendo questa guerra, anche perché gli Stati Uniti non sono semplici spettatori del conflitto, essendo coinvolti in vario modo, tra cui quello che li vede vendere armi a Riad (recentemente è stata approvata la vendita di missili per 650 milioni di dollari, bastevoli per sfamare lo Yemen per un secolo…).

Al di là delle bizzarrie olimpiche, l’attivismo di Paesi non meglio specificati, ma di facile intuizione, è stato denunciato dal primo ministro Manasseh Sogavare come forza motrice delle violente proteste che hanno imperversato nelle isole Salomone contro il suo governo, accusato di aver allacciato rapporti diplomatici con la Cina in alternativa ai precedenti legami con Taiwan (Us News).

I manifestanti hanno messo a ferro e fuoco il quartiere cinese di Guadalcanal, dove sorge la capitale (per inciso, le imprese cinesi sono state obiettivo mirato anche delle proteste registrate in Myanmar, al tempo della rivolta conclusa con un golpe militare – South China Morning Post).

Più aperto il favore degli Stati Uniti per i ribelli del Tigray, che dal novembre del 2020 sono insorti contro il governo di Adis Abeba, in una guerra che sta devastando l’Etiopia.

Il governo di Abiy Ahmed ha fatto due cose che non andavano: aveva stipulato un accordo con l’eterna rivale, l’Eritrea, che gli ha attirato il Nobel, ma anche la diffidenza americana, data la nefasta considerazione che Washington (e il Pentagono) ha per Asmara. Ma soprattutto aveva aperto le porte alla cooperazione con la Cina, che vede nell’Etiopia uno snodo strategico per lo sviluppo della Via della Seta in Africa.

Dopo mesi di massacri, la guerra sembra arrivata a una svolta favorevole ai ribelli, che sono arrivati a poco più di cento chilometri dalla capitale.

E, agli inizi di novembre, a Washington varie fazioni politiche etiopi si sono unite allo scopo di scacciare Abiy e insediare un nuovo governo. A tale scopo è stato formato anche un comando centrale per coordinare le operazioni militari contro le forze governative.

Come annunciato dagli organizzatori, “il patto amplia un accordo già esistente tra il TPLF e l’Oromo Liberation Army (OLA)”, cioè i ribelli del Tigray e quelli provenienti dall’etnia oromo, che hanno iniziato questa guerra.

Di tale accordo riferisce la Reuters, che cita anche le dichiarazioni di uno degli associati, tal Mahamud Ugas Muhumed, a capo del gruppo Resistenza di Stato somala, che non si capisce bene cosa c’entri con l’Etiopia e inquieta un po’, dato che la Somalia da tempo è terra di terroristi legati ad al Qaeda, gli shebab.

Immaginare che gli shebab somali possano essere reclutati sotto tale etichetta e scatenati in Etiopia è forse azzardato, ma non sarebbe la prima volta che gli Usa commettono errori del genere, basta pensare alle forze di al Qaeda che sostennero nella lotta contro i sovietici in Afghanistan o che affiancarono all’Uck, sostenuto dalla Nato, nella guerra di secessione del Kosovo (Wall Street Journal e Open democracy).

Al di là dei particolari, quando Biden aveva annunciato al mondo che l’America era tornata nell’agone internazionale, dopo il quasi-isolazionismo di Trump, si era immaginato qualcosa di simile. Detto questo, si spera che all’Etiopia sia risparmiato il destino della Libia, sarebbe una nuova catastrofe, non solo per il Corno d’Africa.

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