12 Gennaio 2015

Lotta al terrorismo: l'Occidente deve accettare convergenze

Lotta al terrorismo: l'Occidente deve accettare convergenze
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In ricordo delle vittime di Beslan

«Commetteremmo un errore, a mio avviso, se pensassimo di essere iil principale bersaglio dell’islam jihadista. La vera guerra, oggi, è quella che si combatte all’interno del mondo musulmano.

È una guerra tra una setta fanatica e regimi politici spesso incerti, titubanti, ma tutti più o meno collegati […] con l’Europa, gli Stati Uniti e la Russia. È una guerra civile senza quartiere dove le vittime musulmane sono incomparabilmente più numerose di quelle provocate dagli attentati terroristici delle nostre città». Così Sergio Romano sul Corriere della Sera del 12 gennaio (Una guerra che non va perduta).

 

Dopo aver accennato che il principale obiettivo strategico di questi attentatati è colpire i Paesi occidentali che tale setta reputa «protettori o padroni dei loro odiati fratelli» e «il reclutamento di nuovi adepti in comunità musulmane dell’Occidente» (dal momento che «ogni attentato è un appello alle armi, un bando di concorso»), Romano spiega che i nostri «amici e alleati sono tutti i Paesi musulmani o cristiani che si battono sullo stesso fronte».

 

Allora, se vero che il presidente egiziano Al Sisi, il presidente siriano Al Assad, il presidente russo Putin e il presidente iraniano Rouhani governano senza rispettare gli standard democratici a noi consoni, è pur vero che «conoscono l’islam meglio di noi, hanno già fatto in passato dolorose esperienze (abbiamo dimenticato ciò che accadde nella scuola di Beslan, nell’Ossezia del Nord?) e hanno buone ragioni per battersi affinché il loro Paese non venga continuamente insidiato dall’islam sunnita o sia destinato a divenire una provincia del Califfato. Se qualche Paese occidentale fosse disposto a mettere truppe sul terreno potremmo forse fare a meno della loro collaborazione. Ma da quando gli Stati Uniti hanno eliminato questa opzione non abbiamo altra scelta che quella di sostenere con tutti i mezzi di cui disponiamo quelli che sul terreno già ci sono».

 

Nota a margine. Nonostante l’intelligenza dell’articolo, non convince la sua conclusione. L’esigenza di una collaborazione con i Paesi di cui sopra non nasce dal diniego Usa ad un intervento diretto. Basta osservare il recente passato: gli scarponi dei soldati americani non hanno portato stabilità in Afghanistan né in Iraq. Anzi, i due Stati sono diventati luogo di coltura dello jihadismo internazionale. Resta che l’opzione collaborativa indicata da Romano è l’unica possibilità realistica per contrastare la follia jihadista.

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