19 Gennaio 2023

Matteo Messina Denaro "posato" a trent'anni da Riina

Identikit di Matteo Messina Denaro e Toto Riina. Matteo Messina Denaro "posato" a trent'anni da Riina
Tempo di lettura: 3 minuti

L’arresto del boss tiene banco. Tanti i sospetti che Matteo Messina Denaro sia stato coperto prima e scaricato poi, in gergo “posato”. Ne hanno scritto in tanti, inutile tornarci sopra, perché ciò è alquanto ovvio, come ovvie sono le smentite delle forze dell’ordine. Il fatto che la Dia si trovasse a due passi dal latitante può apparire significativo o meno, ma non interessa. Tale è il meccanismo, deve essere così, come scriveva Moro nelle pagine redatte nel carcere brigatista.

D’altronde è stato preso il 16 gennaio, a trent’anni esatti dall’arresto di Totò Riina, anche se il giorno in più di differenza (il suo predecessore è stato preso il 15 gennaio, con scarto dovuto forse a un’inconveniente) toglie un po’ del simbolismo sotteso alla corrispondenza.

Già, forse è più importante tornare a quello, di arresto, perché la cattura di Riina ha inciso non poco sulla storia d’Italia. Ricordo che anche lì, poco prima dell’arresto del cosiddetto capo dei capi, l’Fbi aveva diramato un identikit, essendo anche il volto di Riina noto solo per una foto giovanile.

L’identikit segnalava anche che Riina era gravemente ammalato, tanto da rischiare la morte, anche se poi la puntuale profezia non si è avverata. Chissà se quell’identikit ha contribuito alla cattura. Certo, quando Riina l’ha letto deve aver passato un brutto quarto d’ora.

C’è poi la storia del mancato monitoraggio del covo del capo dei capi, come ora i tanti misteri del covo di Denaro. Un po’ di mistero, in queste fiction, non fa mai male.

Per una coincidenza sorprendente quanto fortunata, l’arresto di Riina avveniva nello stesso giorno dell’insediamento del nuovo capo della procura di Palermo, Giancarlo Caselli, che così, già al suo primo giorno, poteva annunciare il nuovo corso della magistratura palermitana.

Sotto la sua reggenza si ebbe la stagione dei pentiti, cosa mai avvenuta prima né replicata successivamente. Un migliaio di pentiti prese a dire cose e a riscrivere la storia dell’Italia, dal momento che una buona percentuale di questi s’impegnarono ad accusare Andreotti di collusione con la mafia, riconducendo anche gli omicidi politici, in particolare quello di Piersanti Mattarella, ucciso nel 1980, a una questione di mafia e affari, nonostante Falcone fosse convinto che l’assassinio fosse da ricercare negli ambiti neofascisti collusi con i servizi segreti (ma Falcone ormai era morto).

Tutto ciò derubricando a cosa secondaria l’omicidio di Michele Reina, che era stato ucciso poco prima di Piersanti, il 9 marzo 1979. Uomo di fiducia di Salvo Lima, legato ad Andreotti, Reina era stato il tessitore dell’accordo tra Dc e partito comunista siciliano, che avrebbe portato Mattarella alla guida della Regione Sicilia con uno schema simile a quello creato nel ’78 da Aldo Moro e Andreotti per il governo italiano.

Così, dopo la morte di Moro, quella di Mattarella. E perché fosse chiaro che la prospettiva di quella convergenza non dovesse essere più perseguita, Mattarella fu assassinato il 6 gennaio, giorno dell’Epifania (certi ambiti vivono di simbolismi).

E dopo i due trovò la morte anche Pio La Torre, figura chiave del partito comunista siciliano, che aveva lavorato anche lui a quell’accordo. Dopo la fine di quella prospettiva, esito dei due omicidi, La Torre aveva deciso di abbandonare la politica siciliana per quella nazionale.

Ma per poco, avendo poi fatto ritorno alla sua regione alla guida del Pci regionale. Decisione fatale, fu ucciso il 30 aprile 1982, anche lui con la professionalità del caso, mentre si adoperava con certo successo per evitare la realizzazione di una base Nato a Comiso.

Insomma, la mafia aveva fatto da manovalanza per conto di altri per eliminare dall’Italia l’ultimo residuo di quella convergenza politica tra i due più importanti partiti popolari sognata da Andreotti, Moro e Berlinguer.

I capi dei capi non esistono. Non lo era Totò Riina, non lo è Matteo Messina Denaro. Manovalanza, al massimo gestori di manovalanza. Come manovalanza, al netto di alcuni che ci credevano, erano le varie formazioni terroriste che hanno insanguinato l’Italia (non c’erano solo le BR, come si ricorda oggi; tante le organizzazioni che si sono macchiate di sangue al tempo, tra cui Prima Linea, che uccise più delle BR).

Il problema è che quanto hanno raccontato i manovali e i gestori di tale manovalanza, sia brigatisti che mafiosi, nonostante l’ovvia distorsione e reticenza, è diventato storia d’Italia. Una storia cristallizzata da media poco propensi all’approfondimento e da tanti film e fiction di successo. E un Paese la cui storia è stata scritta da assassini precipita in un abisso di confusione.

Da vedere se anche Matteo Messina Denaro scriverà la sua pagina di storia (di certo darà materiale per altre fiction). Forse è proprio questa la sua missione terminale, ma lo storico avvocato dei pentiti (ne ha difeso decine) Luigi Li Gotti, è scettico sul punto. Ci fermiamo qui, anche se sarebbe simpatico scrivere altro sul teatro italiano. Magari ci torneremo.

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