10 Maggio 2024

Come gli Usa hanno favorito il messianismo della Grande Israele

L'attuale legame indissolubile USA-Israele è "il prodotto di condizioni uniche: il momento unipolare dell’America post-Guerra Fredda, il successo economico degli Stati Uniti degli anni ’90 e la Guerra Globale al Terrore".
Come gli Usa hanno favorito il messianismo della Grande Israele
Tempo di lettura: 4 minuti

L’intemerata di Biden contro l’attacco a Rafah finora non ha avuto esito. Netanyahu ha ribadito che proseguirà la campagna, cosa che sta accadendo, con i carri armati dell’esercito israeliano che hanno circondato la parte orientale di Rafah, i soldati che ne presidiano la strada principale, le bombe che continuano a cadere e a falciare vite.

Netanyahu isolato? Lo è anche Biden…

D’altronde, Netanyahu ha buon gioco: la durissima presa di posizione del presidente americano e la sospensione dei rifornimenti bellici a Israele ha suscitato forti contrasti in patria.

Anzitutto, il Segretario di Stato Tony Blinken, chiamato a riferire al Congresso se Israele viola i diritti umani, cosa che renderebbe più duratura la sospensione della consegna delle armi, dovrebbe fare un rapporto aspro, ma evitando di condannare Tel Aviv, dopo di che le pressioni per riprendere le consegne avranno campo più libero.

Blinken report expected to criticize Israel, but say it isn't breaking weapons terms

Poi c’è l’Aipac, la lobby israeliana negli States, che sta facendo pressioni sul Congresso perché la decisione venga revocata, alimentando e sovrapponendosi alle pressioni in tal senso dei grandi donatori del partito democratico che si sono lamentati con Biden e di tanti politici bipartisan.

Insomma, alla fine, la presa di posizione di Biden potrebbe risultare solo una posa ad usum regni, per provare a rabbonire quella parte del partito e di potenziali elettori che stanno manifestando in vari modi il loro dissenso al sostegno sconsiderato del genocidio palestinese.

Ma se Israele e suoi sostenitori made in Usa stanno facendo tanta pressione per far revocare la sospensione degli aiuti non è solo per il segnale politico sotteso, ma anche perché suscita preoccupazioni sul piano bellico.

A Tel Aviv servono le armi e i proiettili americani, ma non tanto contro Hamas, che possono affrontare con quel che hanno, quanto per il fronte Nord, dove si consuma la diuturna guerra a bassa intensità contro Hezbollah, nel timore di dimostrare debolezza di fronte al nemico e nella prospettiva, accarezzata da tempo, di aprire un confronto vero e proprio con le milizie sciite.

Biden's 'Doomsday Weapon' Threat to Israel Is No False Alarm

Di ieri, ad esempio, l’ennesima minaccia del ministro della Difesa Yoav Gallant, il quale ha affermato che “sarà un’estate calda nel Nord”. Previsione che ha attirato l’ironia caustica di un cronista di Yediot Aeronoth, il quale ha osservato che a Israele serve “un ministro della guerra, non un meteorologo”…

D’altronde, allargare il fronte della guerra aiuterebbe Netanyahu ad alimentare la sua guerra infinita, che gli permette di restare al potere e potrebbe riuscire a soffocare le attuali proteste contro il genocidio palestinese, che anzi, una guerra in cui Tel Aviv fosse bersagliata di missili potrebbe rinfocolare la narrativa di Israele come “vittima perpetua”, (Haaretz) di recente offuscata.

Holocaust Marketers Preserve Israel as the Perpetual Victim

Soprattutto rilancerebbe i rapporti con gli Usa che, nel caso di un conflitto a così ampio raggio, sarebbero obbligati a scendere in campo (con alleati al seguito).

Gli Usa e la Grande Israele

Sui rapporti tra Washington e Tel Aviv, riprendiamo alcune illuminati osservazioni di Leon Hadar sul National Interest, il quale spiega che Israele è nato, dopo la tempesta anti-semita paneuropea e la follia genocida nazista, per dare agli ebrei l’opportunità di vivere come “un popolo normale, che vivesse in uno stato normale, in grado di proteggersi senza dipendere dagli altri per la sua sopravvivenza”.

Israel’s Path to Normalcy American foreign policy has enabled Israel to act as a crusader state rather than a normal nation-state.

Ma il fatto che Israele non fosse riconosciuta dai vicini Paesi arabi – a motivo del conflitto con i palestinesi – l’ha spinta a cercare sponde esterne, “l’Unione Sovietica alla fine degli anni Quaranta, la Francia negli anni Cinquanta e gli Stati Uniti dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967”.

Un sostegno che, però, la leadership israeliana considerava “temporaneo”, in attesa del riconoscimento dei Paesi arabi, passo che non avrebbe più messo in discussione la sua esistenza.

Ma “alcune politiche israeliane che seguirono la guerra in Medio Oriente del 1967, soprattutto da parte della destra israeliana, violarono questi principi. Il sostegno degli Stati Uniti è stato utilizzato in alcuni casi per realizzare un’agenda messianica di insediamento in Giudea e Samaria o in Cisgiordania, e per perseguire l’annessione strisciante di quei territori. E ha solo fatto il gioco degli estremisti dell’altra parte, contribuendo a innescare il circolo vizioso della violenza israelo-palestinese” di oggi.

Ancora più interessante un altro passaggio: “La forza del legame USA-Israele [attuale] – scrive Hadar – è il prodotto di condizioni uniche: il momento unipolare dell’America post-Guerra Fredda, il successo economico degli Stati Uniti degli anni ’90 e la Guerra Globale al Terrore. Questi sviluppi – uniti al sostegno bipartisan allo Stato ebraico – hanno convinto i presidenti degli Stati Uniti ad allineare le politiche americane con quelle di Israele”.

“[…] La strategia americana in Medio Oriente si basa sul presupposto che la presenza diplomatica e militare degli Stati Uniti sia, in parte, intesa a creare un ambiente regionale che protegga Israele dalle sfide regionali e riduca i vincoli sulla sua capacità di perseguire i suoi obiettivi, anche i più ambiziosi. In breve, la Pax Americana è stata in definitiva concepita per rendere il Medio Oriente sicuro per la grande Israele. Ma una tale strategia statunitense ha trasformato Israele in un moderno stato crociato, un terminale di una potenza globale di cui il focus politico, economico e militare si trova dall’altra parte del mondo”.

Da tutto ciò discende che l’America non è solo un alleato di Israele, è partecipe della follia di cui è preda attualmente, anzi ha contribuito non poco a generarla. Ora può accompagnarla, condividendone il destino nel giudizio del mondo e sui libri di storia (sempre se ci sarà una storia successiva), o può fermarla. Quello che non può fare, perché inaccettabile, è atteggiarsi a semplice spettatore, come sta facendo con le critiche verbali, le sue ambigue iniziative frenanti e il sostegno sottotraccia.

Mondo
22 Luglio 2024
Ucraina: il realismo di Haass